segunda-feira, outubro 15, 2007

Antevisão da Tracce de Outubro - Política

Se il desiderio entra in Parlamento
Da una parte, uno statalismo che soffoca anche i segnali di ripresa. Dall’altra, l’individualismo di chi sposa solo il suo “particulare”. E, sullo sfondo, la crescita dell’anti-politica.
Su cosa si può far leva per risollevare un Paese avvitato su se stesso? Sul senso religioso.
Su uno Stato davvero laico. E su cinque proposte da mettere in pratica subito

di Giorgio Vittadini*


--------------------------------------------------------------------------------

Per esaminare la situazione attuale del nostro Paese, è utile partire dal Rapporto 2007 di Unioncamere, dove si legge: «L’economia italiana sta attraversando un lungo periodo di trasformazione. I principali indicatori economici del 2006 hanno fornito segnali di crescita incoraggianti e le stime previsionali per il 2007 sono altrettanto buone (…). Gli imprenditori, nel complesso, hanno la consapevolezza di potercela fare e sono tornati ad investire».
Tutto suggerirebbe che, per favorire un nuovo sviluppo e una nuova equità, occorrerebbe aiutare questa crescita dal basso dell’imprenditoria, delle opere sociali, e di un sistema dell’istruzione caratterizzato dalla libertà di educazione. Dice ancora il Rapporto di Unioncamere: «La domanda principale ora riguarda la capacità del Sistema Paese di consolidare la ripresa nel medio periodo, sciogliendo quei nodi strutturali che frenano la competitività delle imprese (…). Ora però una quota significativa di imprese (…) è impegnata soprattutto a migliorare l’efficienza produttiva e ha bisogno di contare su un Sistema Paese competitivo».

L’“uomo nuovo”
Al contrario, la realtà dei fatti ci pone di fronte a un soffocante statalismo dove la piccola e media impresa è considerata un ammortizzatore sociale, fonte di evasione fiscale e inefficienza e, mentre si cerca di perseguire l’equità mediante il rilancio di un welfare state clientelare, si difende il monopolio statale dell’istruzione e si permette un potere di veto pressoché totale ai sindacati in numerosi settori. In sintesi, sembra che non interessino i tentativi di chi si muove con intelligenza e pare che valgano solo schemi da applicare alla realtà. C’è da sperare che i dati sull’economia dell’ultimo periodo, più negativi del previsto, non siano il segno di una stanchezza di fronte a una politica che comprime lo sviluppo e quindi anche il benessere.
Purtroppo questa situazione non è né contingente, né episodica, ma può essere interpretata come il primo avverarsi della “profezia” formulata qualche decennio fa da Augusto Del Noce e che riguardava l’involuzione convergente cui sarebbero andati incontro un certo socialismo e un certo cattolicesimo in Italia: quel socialismo e quel cattolicesimo che oggi si saldano nell’inedita miscela culturale soggiacente all’attuale coalizione di governo, mortificando qualsiasi istanza autenticamente riformatrice, pur presente in molti esponenti della coalizione. Si tratta di un socialismo che, staccandosi via via dalle sue radici popolari (pur ancora fortemente presenti nella società italiana), ha sposato un’idea di uomo figlia dell’Illuminismo radicale e dei suoi esiti relativisti e nichilisti. L’“uomo nuovo”, svincolato da ogni concreta appartenenza, non può rifarsi ad alcun valore oggettivo e impone alla realtà ciò che gli pare e piace. Questo essere senza legami e senza leggi fonda una nuova moralità, fatta di individualismo; ricerca del proprio “particulare” corporativo in economia; diritto a disporre della vita, della integrità della persona umana, dei legami familiari; tolleranza verso violenze conformi ai propri ideali di potere; indifferenza verso la confusione e il degrado giovanile.
Questa logica individualistica si coniuga paradossalmente, sul piano politico, con una logica ostinatamente statalista. Infatti, in uno scenario in cui ciascuno cerca di strappare per sé il massimo di benessere possibile, solo lo Stato può presentarsi, hobbesianamente, come la suprema entità, l’istanza abilitata a legittimare o a delegittimare dall’alto i comportamenti sociali e a erogare servizi capaci di equità in ogni campo, da quello dell’istruzione a quello dell’assistenza sanitaria.
È inevitabile il matrimonio di questa concezione con quel “cattolicesimo adulto” che, dominato da una coscienza individuale dualista, priva di contenuto e di riferimento oggettivi nella vita sociale, vede nello svincolarsi da legami oggettivi il progresso umano e si limita quindi a giustificare moralmente i contenuti posti da un nuovo radical-marxismo. Come sintetizzava don Giussani ad Assago nel 1987 al Congresso della Dc lombarda, ne deriva «un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio. Un moralismo d’appoggio allo Stato, inteso come ultima fonte di consistenza per il flusso umano» (L’io, il potere e le opere, Marietti).
Il mondo post-girotondino dell’apparente anti-politica è in realtà portatore della stessa cultura in cui si mescolano radicalismo giustizialista e statalismo veteromarxista, ed è quindi in polemica con l’apparato di governo solo perché vorrebbe accelerare tutto il processo. Anche l’anti-politica snob degli ultraliberisti, in polemica con il governo di sinistra nella lotta per il potere, è fatto in realtà della stessa pasta: partendo dalla giusta accusa a clientelismo e rendita, vede il capitalismo finanziario delle multinazionali come il soggetto di un progresso reale, a dispetto dei limiti strutturali che ha mostrato nei recenti scandali internazionali (Enron, Parmalat, Hedge Funds). E perché questo avvenga occorre eliminare l’anomalia cattolica fatta di ideali oggettivi e di appartenenze a realtà sociali. Lo Stato deve perciò allearsi a questo grande capitale finanziario internazionale, legittimandolo e comprimendo ogni tentativo della società e del diffuso mondo imprenditoriale di cercare la sua strada verso lo sviluppo.
Si può quindi parlare a proposito di queste posizioni come di una prepotenza imposta alla realtà innanzitutto umana, «perseguita con la riduzione sistematica dei desideri, delle esigenze e dei valori», riprendendo l’espressione usata da don Giussani ad Assago.

Cultura della responsabilità
Se l’attacco in corso riguarda la stessa concezione della persona, la risposta non può che essere a quel livello e partire, anche sul piano politico ed economico (come disse ancora don Giussani) dal rilancio dell’«irriducibilità della coscienza alle istituzioni», da quella «cultura della responsabilità» che «deve mantenere viva quella posizione originale dell’uomo da cui scaturiscono desideri e valori» e che perciò non può non partire dal senso religioso, «questo elemento dinamico, questo fattore fondamentale che si esprime nell’uomo attraverso domande, istanze, sollecitazioni personali e sociali». Da qui può nascere una base solida della società perché il senso religioso è «la radice da cui scaturiscono i valori. Un valore, ultimamente, consiste nella prospettiva del rapporto tra un contingente e la totalità, l’assoluto» e permette di guardare la realtà in modo adeguato affrontando i bisogni in cui si incarnano i desideri; immaginando e creando strutture operative capillari e tempestive che chiamiamo «opere» («forme di vita nuova per l’uomo», come disse Giovanni Paolo II al Meeting di Rimini nel 1982) in cui si ha presente che il fine di ogni realtà sociale, persino di un’impresa, è la felicità di chi ci lavora e il benessere collettivo di tutta la società.

Il partito del “divo”
Per questo la risposta all’attuale situazione non può essere un semplice ribaltamento degli equilibri di potere: purtroppo oggi l’attuale centro-destra, che pure non ha nelle sue radici un’ideologia anti-umana, non rappresenta un’alternativa credibile alle componenti radicali, giacobine e giustizialiste del centro-sinistra. Anche la maggioranza dei suoi esponenti, infatti, come e più della vecchia Dc, non fonda la sua azione sulla valorizzazione del senso religioso come capacità di apertura e affronto della realtà. Piuttosto, in un superficiale edonismo gaio senza riferimenti a esperienze popolari mosse da valori ideali, finisce per ritenere che la politica, il partito e nel partito l’uomo forte, il “divo”, debbano e possano risolvere i problemi. Per questo, nel suo complesso, grazie al risultato elettorale, il centro-destra svolge la pur importante funzione di freno al radicalismo marxista su certi temi cruciali (vedi lavoro, famiglia, vita, statalismo economico), ma non ha forza propulsiva, al punto tale che quando diventa forza di governo le personalità e le idee che lo animano sono oscurate e non c’è di fatto una proposta di aiuto alle spinte dal basso.
Non fa eccezione la parte culturalmente più nobile del centro-destra, quella che fa capo in diverso modo al pensiero neo-con. Prescindendo dal riferimento al senso religioso, gli esponenti di questa corrente finiscono per riproporre alcuni giusti valori, ma basandosi su una tradizione non verificata in modo critico dall’esperienza intesa nel suo significato integrale. Così, questo mondo finisce per sposare anche posizioni politiche che hanno mostrato i loro limiti, come l’esportazione forzata della democrazia occidentale e la guerra dell’attuale amministrazione americana in polemica con la Santa Sede e la mancanza di attenzione alla sussidiarietà sotto il profilo teorico e pratico, finendo per credere che il cambiamento possa venire dal “divo” in politica.
In definitiva perciò vale oggi per tutta la politica e anche per l’anti-politica italiana un altro concetto espresso da don Giussani ad Assago 1987: «Un partito che soffocasse, che non favorisse o che non difendesse questa ricca creatività sociale, contribuirebbe a creare, o a mantenere, uno Stato prepotente sulla società. Tale Stato si ridurrebbe a essere funzionale solo ai programmi di chi fosse al potere».
Come fare ora se la risposta non sta nei vecchi partiti, né nei nuovi ipotizzati anche da una parte di certo mondo cattolico dopo il successo di giuste battaglie a favore di diritti irrinunciabili?

Tornaconto e libertà
Non c’è altra strada che quella lunga, quotidiana, personale educazione al senso religioso che, unica, può fondare un soggetto capace di agire senza ridurre il suo desiderio. «Se ci fosse un’educazione del popolo», come ebbe a dire sempre don Giussani dopo la strage di Nassirya. Ed è per questo che la prima emergenza è l’educazione, come ha sottolineato un appello sottoscritto nel 2005 da numerosi esponenti della vita pubblica italiana e confermato dalle risposte degli intervistati in una indagine condotta dalla Fondazione per la Sussidiarietà nel 2006.
Stanno venendo meno quei movimenti, quelle realtà di base, quei corpi sociali, alla radice del nostro patto costituzionale (Art. 2), dove l’aggregazione non avviene, come diceva Giussani, «nella provvisorietà di un tornaconto, ma sostanzialmente (…) secondo una interezza e una libertà sorprendenti». In queste realtà il desiderio viene educato, difeso contro le riduzioni del potere e possono nascere opere nel senso detto che, senza la pretesa di risolvere tutti i problemi «puntellando l’impero» (come ha suggerito alcuni anni fa il filosofo Alasdair MacIntyre), possono essere degli esempi da cui può ripartire una società più vera, esattamente come furono i monasteri nel Medioevo.
Di questa possibilità ha parlato don Julián Carrón nell’ultima Assemblea internazionale dei responsabili di Cl a La Thuile, riprendendo il tema dell’educazione al senso religioso. La ricostruzione dell’umano e della società avviene quando si incontra «un io che, facendo l’opera, non riduca il bisogno, non riduca la risposta al bisogno. Nella modalità con cui noi rispondiamo al bisogno, nella modalità con cui noi generiamo un’opera, si vede qual è la percezione del Mistero». Ma «perché io non riduca il bisogno, perché quando guardo un altro io non lo riduca, occorre che io non sia ridotto, occorre che il mio io non sia ridotto. Se io mi rendo conto di qual è il mio bisogno, non sarò così ingenuo da pensare che, rispondendo soltanto parzialmente al bisogno dell’altro, io risponda all’altro. Occorre muoversi imitando quanto fece Gesù: che non ha cercato soltanto di rispondere alla fame, ma ha cercato di rispondere a un’altra fame, perché “non di solo pane vive l’uomo”».
Quando questo avviene, senza soccombere al ricatto di volere risolvere tutto e senza perdere la propria originalità (che consiste nel porsi come io), cominciano a esistere esempi dove accade che «si comunichi l’esistenza di una risposta alla totalità del bisogno e perciò si ridesti la speranza intorno». Questo il cammino, non breve e non semplice, ma inevitabile che si apre davanti a noi. Solo così potrà ridestarsi un io in grado di dare un contributo al bene di tutti.
In questo contesto, che ruolo deve avere la politica per favorire l’educazione e la valorizzazione di ciò che è di più positivo e innovativo? Dice ancora don Giussani ad Assago: «La politica deve decidere se favorire la società esclusivamente come strumento di manipolazione dello Stato, come oggetto del suo potere. Ovvero favorire uno Stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale secondo il concetto tomistico di “bene comune” ripreso vigorosamente dal grande e dimenticato magistero di Leone XIII». Sono parole del tutto attuali che indicano una strada possibile anche per i sinceri riformisti presenti in entrambi gli schieramenti, oggi mortificati nei loro tentativi di rinnovamento.

*Presidente Fondazione
per la Sussidiarietà

Sem comentários: